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Il polittico di Santa Sabina, cappella di San Tarasio, chiesa di San Zaccaria a Venezia

analisi storico-critica

Quello di Santa Sabina è uno dei tre polittici eseguiti nel 1443 da Antonio Vivarini (Murano 1420c.-1476-84c.) e Giovanni d’Alemagna (morto nel 1450) per il coro della chiesa gotica di S. Zaccaria a Venezia, l’attuale cappella di San Tarasio, anche detta Cappella d’oro. Al centro della predella in legno intagliato e dorato un’iscrizione recita:

iohanes.et.antonivs.de.mvrano.pinxerunt./1443.Ms./octobri./hoc.ops f.fieri./venerabilis./D. doma. mar/garita d?ato m/?ialis iste ecclesie/sti zachariae

San Zaccaria, chiesa del ricchissimo convento di monache benedettine facenti parte della migliore aristocrazia veneziana, aveva all’epoca come badessa Elena Foscari, sorella del doge Francesco.

I tre polittici vivariniani hanno palesemente la funzione di valorizzare le preziose reliquie della chiesa, e la profusione dell’oro nei fondi e nelle cornici intagliate conferisce loro anche visivamente l’aspetto di reliquiari. La reliquia più insigne posseduta dalla chiesa era quella del sangue di Cristo. Al centro del registro superiore del polittico di Santa Sabina è raffigurato un angelo con cartiglio recante l’iscrizione: hic sanguis Christi. Il foro (tamponato) di una serratura, visibile nel verso, dimostra che questa tavoletta aveva in origine la funzione di sportello che consentiva di accedere ad una nicchia nel muro retrostante, dove era custodita la venerata reliquia.

I santi raffigurati negli scomparti sono Santa Sabina fra San Girolamo e San Lizerio a figura intera nel registro inferiore, Santa Margherita e Sant’Agata a mezzo busto nel registro superiore, tutti in relazione alle reliquie possedute dalla chiesa, con l’eccezione di Girolamo e Margherita, la cui presenza rinvia alla committente dell’opera.

Antonio Vivarini e Giovanni d’Alemagna adottano qui uno stile consono all’architettura gotica dell’abside (poligonale costolonata, con finestre archiacute, certo allora decorate da vetrate policrome), in tutto legato al gotico internazionale di Gentile da Fabriano e indifferente all’energico umanesimo fiorentino espresso da Andrea del Castagno negli spicchi della volta, dipinti nel 1442.

Le tavole nel corso del tempo hanno subito gravissimi danni, da eventi traumatici dei quali è difficile stabilire epoca e natura, in seguito ai quali molte porzioni sono andate perdute e sono state rifatte con completamenti mimetici talvolta arbitrari. E’ documentato un restauro eseguito da Giovanni Zennaro nel 1906. Nel 1983 le tavole sono state restaurate da Antonio Lazzarin a spese dell’Istituto Olandese per la salvaguardia di Venezia, al quale si deve anche il finanziamento del restauro della cornice, eseguito nel 2000 dallo studio Bergamaschi-Menegazzi.

A distanza di circa trent’anni dall’ultimo intervento i dipinti presentavano ormai evidenti alterazioni dei ritocchi e perdite di adesione degli strati pittorici che hanno consigliato un intervento conservativo dell’ISCR. Ciò ha comportato un’accurata progettazione, in stretta collaborazione con la Soprintendenza al Polo museale veneziano, che ha attivato la partecipazione di vari sponsor, e l’ottenimento della garanzia di stato sostitutiva dell’assicurazione, che ci consente oggi di esporre i risultati del restauro.

 

Dettagli di costume tra moda e devozione

Nella prima metà del Quattrocento le trasformazioni più importanti della moda sono legate all’uso di ricercate tipologie tessili che rendono fastosi gli abiti. Nei dipinti di questo periodo troviamo fogge già in uso nei secoli precedenti accanto a nuovi modelli che si modificano e si moltiplicano. Materiali come l’oro e la seta - tinta con costosi coloranti – vengono impiegati con complesse tecniche di tessitura che permettono di produrre pochi centimetri di tessuto al giorno. I velluti operati, prodotti già dalla fine del Trecento nelle manifatture italiane, sono le stoffe più preziose.

Diventano esemplari due motivi decorativi: uno a sviluppo verticale di lunghi tronchi ondulanti coronati da foglie lobate con al centro il motivo della melagrana (o fiore di cardo o pigna), denominato griccia, l’altro con grandi foglie lobate allineate orizzontalmente con al centro la melagrana, chiamato a camini (o cammino). Il successo di questi due motivi è comprovato dalla loro riproduzione nella pittura coeva di tutta Europa. Il cambiamento rispetto al passato è evidente: il tessuto non si presenta più come una pagina miniata ma come un bassorilievo. Nella gerarchia dei colori impiegati il posto d’onore spetta sicuramente al rosso, in diverse varianti tonali, e poi al verde e all’azzurro.

Gli abiti maschili degli inizi del XV secolo assumono forme caratteristiche e, nella rappresentazione di San Lizerio, Vivarini ce ne mostra alcune. Il santo indossa una veste di sotto, denominata farsetto realizzata con un tessuto azzurro operato in oro. La veste di sopra, che modernamente si arresta sopra al ginocchio, è una cioppa realizzata in velluto color violaceo col caratteristico motivo del cammino. La veste è foderata e bordata da una pelliccia dal caldo tono fulvo rossiccio, probabilmente di martora. Sui fianchi indossa un’alta cintura dalla fibbia elaborata, munita di un elemento terminale solitamente destinato a sorreggere la borsa. Possiamo immaginarla realizzata in cuoio dorato con applicazioni a rilievo in metallo prezioso, anche se la moda coeva prediligeva oramai cinte meno “importanti”. Il mantello, non particolarmente ampio né lungo fino ai piedi, fa pensare all’impiego di un panno scarlatto foderato con una pelliccia grigia di dossi di vaio (dorsi dello scoiattolo siberiano). Lo scollo è guarnito da una bordura dorata che pare ispirarsi a caratteri cufici. Le gambe sono coperte dalle calze solate, in un vivace panno azzurro.

Nell’abbigliamento femminile le vesti (gamurre, cioppe, pellande e giornee) presentavano una linea allungata e morbida, la vita alta e le scollature tonde. Anche le donne indossavano i mantelli realizzati in tessuti semplici o lussuosi, in inverno foderati di tessuto o di pelliccia. Le sante raffigurate nel polittico mostrano alcuni particolari che si ispirano a tipologie reali. Nel mantello di Santa Sabina, in velluto rivestito di ermellino, sono applicate sulla superficie elementi d’oro a forma di verghette a fogliette che lo rendono ancora più prezioso. Il tessuto del mantello di Santa Agata fa pensare a un panno in lana verde, foderato in tessuto rosso “a contrasto”. La veste o il manto delle sante negli scolli ha una bordatura in oro a motivi decorativi in rilievo (ancora una volta ispirati a caratteri cufici)  che richiama la tridimensionalità dei tessuti operati e dei ricami. Come ai sovrani in terra, a Maria, ai santi e angeli è concessa, per mezzo dei vestiti preziosi, l’onore della regalità, lo status che si rivela nella stoffa serica riccamente operata in oro, nelle decorazioni e negli accessori pregiati, nelle rare pellicce.

Gli artisti Antonio Vivarini e Giovanni D’Alemagna vestono i corpi con i più splendidi abiti per la moda del primo Quattrocento, così come in passato i pittori nel Medioevo. Questo atteggiamento devozionale, nel corso del tempo, si è concretizzato anche nella pratica da parte dei nobili, di donare vesti e gioielli alle sacre raffigurazioni. “…I doni ai simulacri possono essere considerati come una forma di “preghiera materializzata”, il desiderio dei fedeli di mettersi in un rapporto di devozione personale e diretta con la divinità, l’intenzione di “votarsi” al santo. Nel rapporto personale, quasi una identificazione, che i devoti instaurano nei confronti della divinità rientra anche la donazione di vesti usate personalmente”[1].

 



[1] E. Silvestrini, Le effigi “da vestire”. Note antropologiche, In VIRGO GLORIOSA: PERCORSI DI CONOSCENZA, RESTAURO E TUTELA DELLE MADONNE VESTITE Atti del Convegno organizzato in occasione di Restauro 2005 - Salone dell’Arte del restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali, Ferrara 9 aprile 2005